Il conflitto in Libia tra l’esercito libico fedele a Gheddafi e la coalizione dei “volenterosi”, – organizzatasi sulla base della risoluzione 1973 dell’Onu la quale lasciava spazio a chiunque di intervenire – è un evento che necessita di essere interpretato e demistificato. Non è possibile infatti decontestualizzarlo dalla serie di proteste nel Maghreb, né dagli interessi delle borghesie europee e occidentali. Oltre al panorama internazionale, da militanti, ci interessa evidenziare – per quanto possibile in quest’occasione – la composizione del soggetto popolare che ha promosso la fuoriuscita del malcontento fra le popolazioni arabe, e dall’altra la serie di interessi che si sono coagulati intorno alla decisione pro intervento militare.
L’incipit: le rivolte del Magreb.
Quello che sta succedendo nel Maghreb è interpretabile solo prendendo coscienza che l’economia del mondo è ormai definitivamente globalizzata, e il mercato delle merci è mondiale. Dall’altra c’è una classe di sfruttati di tre miliardi di uomini e donne in continua competizione per un salario (fenomeno mai verificatosi in queste proporzioni) che non sa riconoscere se stessa, né la natura del suo sfruttamento, né tanto meno ciò che potrebbe definitivamente risollevarla dalla miseria, dalla disoccupazione e dallo status perenne di “lavoratore povero”.
Ad alcuni sembrerà che ci stiamo allontanando dalla questione della guerra in Libia, che questa analisi poco abbia a che fare con un intervento armato contro Gheddafi, che i tunisini, gli egiziani, gli yemeniti in realtà cercano solo uno Stato meno corrotto, una democrazia dei diritti.
Quello che interessa mettere in luce, in queste poche righe, è invece ciò che di poco casuale traspare dalla composizione delle masse dei rivoltosi, dal loro essere specifico. Le proteste scoppiate nei paesi arabi sono, a nostro avviso, l’ultima e più radicale esternazione del malessere dovuto al graduale peggioramento delle condizioni di vita. Malcontento e povertà che vanno di pari passo con uno sfruttamento intensivo, bassissimi salari e una disoccupazione che si alterna a piccoli periodi di lavoro (che noi definiremmo “flessibile”) senza tutele e nessuna sicurezza sul lavoro. Rasentando il nocciolo della questione Giuliana Sgrena sul Manifesto del 7 aprile afferma che i tunisini si ribellano perché non hanno prospettive per il futuro, che essi rigettano la Tunisia di Ben Alì e del precariato. A questo punto, secondo la giornalista, la soluzione realizzabile per cui è giusto che sperino e lottino i tunisini sarebbe la democrazia dei diritti, forse su un modello europeo… Come qui in Italia verrebbe da dire!
Tralasciando le conclusioni (poco) politiche, quello che qui c’interessa è la condizione di questi giovani, oltre che sfatare alcuni luoghi comuni sulla presunta arretratezza delle economie di questi paesi. L’Egitto per esempio, ma anche la Tunisia, non sono economie ristagnanti, bensì hanno tassi di crescita che hanno indotto alcuni economisti a definirle le Tigri Africane di inizio terzo millennio. E con loro altri paesi africani: in Egitto nel 2009 il PIL è calato del 2,3 % ma nei tre anni precedenti era cresciuto del 7 % (ciò significa nel 2010 una crescita, rispetto al 2008, del 4,7 %), sempre nel 2009 la Tanzania è cresciuta del 7,4 %, l’Etiopia del 9,9 %, l’Uganda del 10,4 %, il Mozambico del 6,3 %.
Un altro dato molto interessante – e che palesa come per il proletariato giovanile esista una comunanza di situazioni fra un Occidente “progredito e post-tutto” e un Oriente “arretrato al Medioevo” – è l’altissimo tasso di disoccupazione dei giovani dei paesi arabi. Ragazzi e ragazze senza prospettive certe di lavoro, ma con un curriculum da persona scolarizzata e qualificata molto occidentale. Questi giovani alternano periodi prolungati di disoccupazione a brevi tempi di lavoro, ottenuto sempre e comunque tramite un sistema di capolarato pre-capitalista (mica le nostre agenzie interinali!). La generazione – e non è solo una generazione ma almeno due – che ha a che fare con i 46 contratti atipici della legge 230 ha probabilmente gli stessi problemi della gioventù tunisina ferma al bar in attesa di una retribuzione. E stiamo a domandarci ancora cosa avrebbero a che fare con noi?
Chissà poi se, tornando alle vicende italiane, qualcuno ancora si ricorderà di Norman Zarcone, il dottorando di 27 anni che a metà settembre del 2010 si è gettato dal settimo piano della Facoltà di Lettere di Palermo perché aveva scoperto di non poter continuare la sua carriera universitaria..
E di Mohamed Bouazizi cosa dire?
Anche lui aveva studiato, anche lui si era laureato e lo sconforto lo aveva sicuramente assalito quando non gli è rimasto altro che vendere, nella piazza del suo paese, piccoli oggetti o frutta. Entrambi, nel prendere quella decisione senza possibilità di ritorno, nel morire, si saranno sentiti come oggetti, come merci senza alcun valore per un sistema che, nel migliore dei casi, ti permette di (soprav)vivere. Nel caso contrario la proibizione è totale: né casa, né sanità, né trasporti e tanto meno la possibilità di esprimere, senza costrizioni, le proprie capacità.
Quanti giovani mettono da parte il loro potenziale creativo per farsi assoggettare dall’obbligo imposto dei profitti (per il padrone) e dalla necessità di un salario (per se stessi)?
Un altro fenomeno prettamente capitalistico è stato il presentarsi, in brevi periodi, di numerose speculazioni finanziarie sul prezzo dei beni di primo consumo. Speculazioni attuate nei paesi del Maghreb dalle otto compagnie americane della Borsa dei prodotti agricoli Commodity Stock Excanges di Chicago: nel 2008 per esempio in soli tre mesi il prezzo di grano, riso e mais sono cresciuti del 61%, 59%, 70%. Questa fu causa scatenante già alcuni anni fa di proteste violente nella città del Il Cairo. Ma si sa che la corsa a massimizzare i profitti ha trovato nelle Borse, nella bisca legalizzata dei futures, un mezzo a cui ricorrere in tempi di magra, di scarsa redditività dei capitali investiti. E così, schiacciare i più poveri diventa una prassi reiterata che produce malcontento e rivolte fino allo scoppio contro le oligarchie poco “democratiche”.
Poi, se non si avesse a cuore le sorti degli sfruttati, dei proletari, dei poveri, verrebbe quasi da sorridere nell’ascoltare le analisi di alcuni ideologhi, profumatamente pagati dalla borghesia francese, i quali, senza tralasciare punte di clamante sciovinismo, sintetizzano questi moti come un 1848 arabo, o addirittura una piccola Rivoluzione Francese in scala. Niente di più falso dato che, anche sotto forme di controllo militare pressoché feudali (pensiamo al castello di Ben Alì e alle sue guardie personali “aquile nere”), questi paesi hanno già una borghesia locale, una casta, una ristretta cerchia di capitalisti in loco, delle satrapie molto concilianti con i capitali stranieri.
Capitali stranieri che non scappano, anzi abbondano con l’obiettivo di sfruttare la forza lavoro a basso costo. Il 40 % del PIL dell’Egitto è costituito da prodotti finiti (una piccola Cina) e oltre a Volkswagen e General Motors sono tante le multinazionali (non solo del petrolio) presenti. Prima che scoppiassero le rivolte in Tunisia si sentiva spesso parlare di call-center delocalizzati a Tunisi e dei paesi arabi come porti sicuri per investimenti redditizi. L’ideologia neo-liberale, dunque, non è per nulla in discussione per questi Governi arabi costruiti sul volere delle Nazioni più potenti, o addirittura sugli interessi delle multinazionali (BP, Shell, Eni in testa).
Perché la guerra in Libia.
La crisi strutturale che, dal 2007, attanaglia tutte le economie maggiormente sviluppate dell’Occidente – avente inizio proprio nel cuore finanziario del capitalismo mondiale, gli Usa – ha come principale causa la caduta del saggio medio dei profitti.
Diminuzione tendenziale dei profitti che, solo rifacendosi ai dati del PIL delle Nazioni più sviluppate, è in costante discesa sul lungo periodo dal dopoguerra in poi. A questa situazione (legata alla struttura stessa del modo di produzione e al processo di creazione del valore) le borghesie più potenti del mondo rispondono con maggiore sfruttamento, ricerca di bassi salari e guerra. Un maggiore sfruttamento che significa, sin da subito, orari di lavoro più lunghi, intensificazione dei ritmi nella catena, flessibilità, ma anche introduzione di nuovi macchinari con conseguente eliminazione di forza lavoro. Non è poi così difficile accorgersi di quante mansioni, di quanti “lavori”, siano scomparsi da quando l’utilizzo di macchinari e la tecnologia della microelettronica sono apparse nei processi produttivi. Questo cambiamento radicale è ormai una realtà in tutte le fasi della produzione: dalla progettazione fino alla realizzazione comprendente un lavoro manuale, di relazione o esigente solo del tempo senza necessità di particolari capacità (fare gli schiacciabottoni!) Qualsiasi ingegnere può confermare come il lavoro di calcolo e progettazione (prima svolto in diversi giorni) occupi oggi solo poche ore davanti a un computer, a condizione di essere dotati del programma adatto. Basta guardarsi intorno per accorgersi che anche chi non crea direttamente del plusvalore (perché impiegato nella vendita e nella distribuzione) come per esempio i lavoratori alla cassa di un supermercato, venga gradualmente sostituito dalle macchine. Macchine che invadono, sostituiscono forza lavoro, eliminano parte dei costi, e abbassano le capacità conoscitive e operative richieste ai lavoratori, gettando gli stessi con estrema facilità verso la disoccupazione. Moltissimi infatti, in ambiti lavorativi fra i più disparati, non devono fare altro che osservare il macchinario e premere un pulsante ogni tot di secondi. Non gli viene richiesto ormai altro che il loro tempo.
Oltre questi cambiamenti epocali indotti dalla necessità di aumentare i profitti e che riguardano l’Italia come l’Egitto e la Cina, s’inserisce l’occasione dello “stato di guerra”. Una spartizione di risorse, una già prospettata ricostruzione per cui in molti (dalle multinazionali ai Governi) sono pronti a spendere miliardi e sacrificare vite umane. Oltre a motivi pratichistici ed economici stanno però anche motivazioni di dominio, di egemonia politica rispetto alle altre forze in campo nei territori in rivolta, nonché la somministrazione di quel progetto sempre più sofisticato e tecnologico di controllo sociale. L’intervento armato in Libia è perciò un monito verso gli altri rivoltosi oltre che una solida rentrée neo-coloniale, neanche tanto mascherata. L’obiettivo è estirpare alla base ogni tentativo rivoluzionario o di sovvertimento del dominio di una classe su un’altra, ogni rivolta degli sfruttatori sugli sfruttati. Altro che aiuto umanitario …
Per l’Italia come per Francia, USA, GB, Canada e Arabia Saudita, si tratta in primo luogo di distruggere mezzi di produzione, strade, edifici, forza lavoro (uccidere migliaia di disoccupati/e e proletari/e) col preciso fine di appropriarsi delle materie prime (petrolio e gas) per avviare un nuovo ciclo di accumulazione del capitale.
Fa gola come sempre la ricostruzione, come fa gola il petrolio e soprattutto il controllo stesso (in petrodollari) del commercio del petrolio, fanno gola anche le partecipazioni finanziarie della famiglie Gheddafi e fa paura l’instabilità politica che ne deriverebbe se i rivoltosi non fossero infiltrati e pagati.
Ma, a questo livello di analisi, la domanda che ci sovviene è anche un’altra. E’ ancora attuale una teoria dell’“imperialismo fase suprema del capitalismo” quando gli interventi militari sono fomentati, se non organizzati, dalle multinazionali i cui interessi per definizione sono “sovranazionali”?
Di certo rimane il fatto che i sistemi di controllo militare, e prima poliziesco, sono strumenti nelle mani dei Governi, i cui fili si ricollegano inequivocabilmente a centri decisionali della finanza, o delle multinazionali: quanto peso avrà avuto sull’intervento “precoce” dei francesi l’influenza del gruppo Total? E le sette sorelle del petrolio sulla guerra Iraq?
Rimanendo in tema, non è inesatto riconoscere nei rapporti tra potere istituzionale e potere militare variamente distribuito (personalità dell’Esercito in contatto con i gruppi industriali) un chiaro segno delle aspirazioni guerrafondaie del capitalismo, ovvero la sua propensione alla ricostruzione (e quindi guerra) oltre che il ricorso continuativo all’acquisto di merci per uso militare (quindi enormi investimenti). Chi si è documentato sulle attività di Finmeccanica – gruppo che ovviamente vende armi a chiunque abbia capitali da investire – ha potuto constatare quanto sia influente il potere decisionale di agglomerati come questo sulle decisioni dei Governi nazionali. Recentemente le Commissioni di Camera e Senato, nell’immobilismo più totale della politica governativa, hanno solertemente approvato, con il silenzio-assenso da parte del PD, un programma di riarmo sostanzioso e dal valore complessivo di quasi un miliardo di euro: per la precisione di 933,8 milioni. Non è casuale che questi soldi, variamente spesi (elicotteri, mortai, unità navali, sommergibili di “classe”, finanche 63 milioni per l’ HUB Pisano) vadano a finire dritti dritti nel portafoglio del gigante industriale Finmeccanica. Non è neanche troppo lontano il giorno in cui il ministro della guerra La Russa organizzò una missione verso Haiti (da poco colpita dal terremoto) con lo scopo surrettizio di ancorare la nave dell’Esercito Italiano in Brasile e far, in questo modo, visionare i mezzi militari di Finmeccanica a esponenti dell’Esercito Brasiliano. L’obbiettivo era la vendita, ma chi ci guadagnava era solo Finmeccanica. All’Italia, sarà valso “il prestigio” come dice La Russa?
Un altro motivo, per nulla irrisorio, che spinge gli Stati, con i loro apparati militari quasi dovunque privatizzati, a costruire e creare ad arte nuove occasioni di guerra è la valorizzazione degli enormi capitali investiti in armi, equipaggiamento, ricerca militare, mezzi bellici. Che utilità hanno queste merci se non vengono utilizzate? Assolutamente nessuna, perciò è necessario adoperarsi perché le guerre siano costanti e le armi necessarie. A questo proposito basti pensare a un evento bellico come il conflitto delle Isole Falkland tra Inghilterra e Argentina nel 1982.
In questo contesto di guerra e di ricerca dei profitti sfrenata, rientrano i giochi politici di un Partito Democratico – o di un Vendola – che sostengono la politica guerrafondaia del Governo e non hanno (e non possono avere) un’alternativa minimamente riformista di sinistra in periodo di crisi strutturale. A ciò si aggiunge l’ovvia propaganda ideologica, neppure tanto celata (Castelli della Lega ha parlato esplicitamente di “guerra neo-colonialista”), che punta a spostare l’attenzione su un nemico esterno, il barbaro che viene dal Sud del mondo, l’incivile descritto come un extra-terrestre nel senso più letterale della definizione.
Ora, dovrebbe essere un po’ più chiaro il nostro NO a questo come ad altri conflitti i quali, semplificando, potremmo definire “inter-imperialistici”. Creare un opposizione diventa un dovere, se non una necessità, per ogni movimento anti-capitalista. Riportare lo scontro su un terreno non solo rivendicativo ma sociale e internazionalista, provando a ricomporre gli sfruttati e fraternizzando con i migranti, ci aiuterà non solo nella lotta ma anche nella produzione politica e nella chiarificazione dei processi in atto, militari e non.
FACCIAMO GUERRA AI PADRONI DELLA GUERRA!