Tra riformismo e reazione

Quello che segue ? il contributo di un compagno del Collettivo Aula R. Attraverso una disamina attenta della crisi economica-finanziaria in atto, delle sue radici sistemiche e dei provvedimenti governativi volti ad arginarla (e che, invece, hanno finito con l’aggravarla ulteriormente), si analizzano i possibili percorsi di lotta. Da una parte uno stolido riformismo che confida ancora nell’esistenza di un capitalismo “buono”, dall’altra il pericolo per la possibile ripresa di idee conservatrici e reazionarie (una sorta di nuova “controrivoluzione preventiva”). Rimane quindi un’ultima opzione, quella della critica sistemica per giungere ad un nuovo modello di societ? da realizzarsi sulle macerie del mondo capitalista.

 

Una volta dicevano domani “sar? ?meglio”

La manovra finanziaria approvata con il consenso bipartisan di entrambi gli schieramenti politici di centro-destra e centro-sinistra passer? ?alla storia come l’ennesima operazione, da parte di Governi europei, tesa a salvare le banche. Le indicazioni della BCE, banca che rappresenta il potere dei grandi capitali europei di decidere sulle politiche statali, ha gi? costretto i Governi (quello italiano?in primis) ad adottare nuovi interventi sull’et? pensionabile, sullo Stato sociale e sulle normativa del lavoro.

Ma per comprendere fino in fondo il perch? della manovra e le ragioni alla base dello sviluppo di una crisi economica su base mondiale ? necessario fare chiarezza sulle origine econimiche della grande depressione.

In seguito alla crisi dei?Subprime scoppiata negli Stati Uniti nel 2008 l’economia dei paesi occidentali (USA, Europa, Giappone) ? entrata in una fase di acuta recessione con una crescente disoccupazione soprattutto giovanile e una forte contrazione dei consumi.

La risposta dei Governi ? stata quella di ripianare i debiti delle banche, operando una sorta di partita di giro per cui le banche che ricevono soldi?a basso interesse rifinanziano a tassi molto pi? elevati gli stessi Stati che le hanno precedentemente salvate; tutto ci? creando enormi speculazioni e incamerando cifre enormi da tesaurizzare. Questa speculazione, che pesa sulle spalle di chi vive di lavoro e in generale su quelle di tutti gli sfruttati ed emarginati, ha gravato ulteriormente sulle casse, gi?? indebitate, degli Stati. In tutta Europa perci? stiamo assistendo a delle manovre di “lacrime e sangue”? per ripianare i vari deficit pubblici. Manovre inutili e ingiuste che non hanno prodotto nessuno dei millantati stimoli all’economia reale. Ma perch??

L’idea, propagandata dagli economisti organici alla borghesia, che si trovava alla base di quest’operazione di salvataggio, era quella di intervenire, risanandoli, sui bilanci in rosso delle banche tramite il finanziamento degli Stati; in questo modo, secondo i cervelli pensanti della classe dominante, l’immissione di liquidit? ?nelle casse delle banche avrebbe fatto ripartire la cosiddetta economia reale.

In realt? ?questa manovra di alleggerimento dei bilanci delle banche e di sottrazione alle tasche del proletariato va avanti dall’inizio dello scoppio della crisi. Per comprendere la consistenza del finanziamento che i vari Governi hanno diretto alle banche basta leggere parte dell’audizione, resa nota solo a giugno 2011, della Federal Reserve da parte del Governement Accountability Office degli Stati Uniti:

? …La Federal Reserve Bank ha dato in segreto, tra dicembre 2007 e giugno 2010, a banche e imprese americane e non, prestiti per circa 16 mila miliardi di dollari senza interesse e a condizioni di rimborso del tutto fluide. Argomento: per ?salvarle?… La lista degli istituti beneficiari figura a pagina 131 del rapporto. Eccone i principali: Citigroup (Usa): 2.500 miliardi di dollari (una volta e un quarto la ricchezza prodotta in un anno dall’Italia e quasi sei volte quella del Belgio), Morgan Stanley (Usa): 2.040 miliardi di dollari,Merrill Lynch (Usa):1.949miliardi di dollari, Bank of America (Usa):1.344 miliardi di dollari, Barclays Plc (Regno unito):868 miliardi di dollari, Bear Sterns(Usa):853miliardi di dollari, Goldman Sachs (Usa) :814 miliardi di dollari, Royal Bank of Scotland (Uk):541 miliardi di dollari, JP Morgan Chase (Usa):391miliardi di dollari,Deutsche Bank (D):354miliardi di dollari,UBS(Svi) 287 miliardi di dollari, Credit Suisse (Svi):262miliardi di dollari, Lehman Brothers (Usa): 183 miliardi di dollari,Bank of Scotland (Uk):181 miliardi di dollari, Bnp Paribas (F): 175 miliardi di dollari. E tanti altri”?.

Peccato (per loro) che a causa della crisi dei profitti nella produzione – crisi che?da tendenziale si ? fatta gi? ?da qualche decennio attuale – ? proprio l’economia reale, ovvero quella strettamente produttiva e non legata alla sfera della finanza, che non ? pi? in grado di remunerare in maniera adeguata i capitali in essa investiti. In poche parole non ? pi? conveniente investire nei settori una volta strategici della produzione industriale. Da qui il ricorso sia alla delocalizzazione di gran parte della produzione di merci in aree – come quella cinese – con salari bassissimi, sia alla cosiddetta globalizzazione finanziaria mediante anche la liberalizzazione della produzione di?capitale fittizio (al cui interno va situata la messa sul mercato dei titoli?Subprime).

E’ dunque proprio dall’economia reale, per nulla “sana”, che sono fuggiti quegli enormi capitali oggi in corsa verso la ben pi? remunerativa speculazione finanziaria. D’altra parte, se cos? non fosse, sarebbe davvero stato sufficiente ripristinare lo?Steagall-Glass act del 1932 o anche solo imporre le limitazioni sulle transazioni finanziarie come scritto in parte nell’accordo di Basilea3.

Il capitalismo, fondato sulla propriet? ?privata dei mezzi di produzione e che trae il suo profitto dallo sfruttamento della forza-lavoro, si ? affidato alle trovate dei suoi pensatori pi? illuminati al fine di scovare nuove salvifiche vie di uscite a quella tendenza descritta da Karl Marx quale?legge della caduta del saggio medio di profitti. Una legge molto semplice che prevede il mutamento della composizione organica del Capitale in maniera che il?capitale costante (macchinari, materie prime, ecc…) aumenti, in proporzione, di pi? del?capitale variabile (corrispondente al totale dei salari che il capitalista anticipa per impiegare e sfruttare una determinata quantit? ?di forza-lavoro).

Come gi? ?descritto da Marx si attivano, in contrasto a questa tendenza causa di profitti decrescenti, alcune?cause antagonistiche in grado di arginare, rallentare solo temporaneamente, la decrescita del saggio di profitto. Per questo i profitti decrescono ma non si arriva necessariamente in tempi brevi a una crisi delle proporzioni di quella che stiamo vivendo oggi.

Tutte le risposte che, dal secondo dopoguerra in poi, il sistema di produzione capitalista – nelle vesti di grandi capitali monopolistici e grande capitale finanziario – ha prima pianificato e poi attuato fanno tutte fronte alla sola necessit? ?di ogni capitale di accrescere se stesso e di fermare cos? la diminuzione dei profitti.

Fra queste risposte vi sono senza dubbio la?delocalizzazione della produzione nei paesi con una forza-lavoro pi? a basso costo e allo stesso modo l’intensificazione dello sfruttamento nei paesi economicamente pi? avanzati tramite l’imposizione della?flessibilit??nell’impiego della forza-lavoro. Oltre a questi due fenomeni su scala mondiale vi ? il definitivo attacco ai diritti dei lavoratori per via dello smantellamento della contrattazione collettiva.

E’ soltanto legato alla caduta del saggio medio di profitto dunque se le attivit? ?si sono delocalizzate e la sfera della finanza ? cresciuta a dismisura. E si deve alle necessit? ?ineluttabili del capitale se, anche in Italia, i profitti derivati dalla produzione strettamente intesa sono andati diminuendo fino a diventare quasi residuali. Ad esempio secondo l’ultimo rapporto di?Mediobanca sulle Pmi pubblicato a giugno 2011, il 50% dei profitti delle piccole e medie imprese italiane proviene loro da attivit?? delocalizzate e un altro 26% da attivit?? di tipo finanziario.

Il ricorso perci? alla sfera della finanza non ? un guasto del sistema o una catastrofe dovuta alla sregolatezza o all’imperizia di pochi banchieri, bens? la?scelta strategica intrapresa dai grandi gruppi monopolistici a seguito della caduta dei profitti nella sfera produttiva.

Ritornando a quella che doveva essere la soluzione, per lo meno temporanea, ai problemi del capitalismo “malato” ovvero una massiccia immissione di liquidit? ?a favore delle banche, vi era nelle aspettative della Federal Reserve, del Fondo Monetario Internazionale e dei vari Governi, il convincimento, totalmente disatteso, che oltre ad evitare il fallimento delle banche pi? grandi ci? avrebbe stimolato la ripresa dell’economia cosiddetta reale e quindi anche la crescita del Pil e del reddito nazionale in modo da ridurre anche il rapporto deficit/reddito nazionale.

Nulla di tutto ci? ? per? accaduto e dunque nuove manovre anti-proletarie stanno gi? ?cadendo addosso non solo alla classe dei salariati ma anche su settori sempre pi? ampi della piccola e media borghesia peraltro gi? ?in via di proletarizzazione.

 

Dove va la lotta…

Quello che per? era parso chiaro, fin da subito, persino a banchieri come Mervyn King (Bank of England) ed economisti di peso come Halevi era la duplice impossibilit? ?momentanea di, non solo far ripartire l’economia, ma soprattutto aumentare l’occupazione tramite l’impiego di forza-lavoro in settori industriali nuovamente remunerativi.

Nella storia di due secoli del capitalismo, l’esubero di forza-lavoro espulsa dalle fabbriche e sostituita dall’impiego di macchine si compensava in parte con l’assunzione di queste nuovi disoccupati da parte di nuove branche dell’industria. Ci? che differenzia questo periodo del capitalismo dai precedenti ? che la nuova branca dell’industia, ovvero le industrie che si occupano di microelettronica e componentistica, hanno bisogno di un bassissimo impiego di forza-lavoro. Ci? rende ancora pi? difficile far ripartire in qualche modo il fenomeno occupazionale.

Per rintracciare le cause della disoccupazione bisogna perci? andare sicuramente pi? in profondit? ?di un analisi sommaria e fiduciosa come quella che ritroviamo nel movimento degli?Indignados spagnoli i quali nel loro manifesto dichiaravano di puntare non solo alla utopica possibilit? ?di “regulaci?n de sanciones a los movimientos especulativos y a la mala praxis bancaria”? – proprio nel momento in cui le banche ricevevano miliardi a tassi bassissimi di prestito – quanto di credere possibile nel capitalismo “la riduzione del tempo di lavoro”?in un periodo storico in cui le scelte dei Governi, dettate dalla logica del profitto di una borghesia ormai internazionale, optano dovunque per la flessibilit? ?della prestazione lavorativa di milioni di lavoratori.

Una scelta programmatica, quella del movimento degli Indignados, condivisa dal recente blocco di forze sindacali e democratiche riunitosi a Roma il 1 ottobre 2011, il quale individua nella nazionalizzazione del banche o addirittura nell’uscita dall’area euro le due pi? concrete strade per venir fuori dallo sfruttamento capitalistico. Niente di pi? lontano sia da una concreta attuazione che da una prospettiva realmente rivoluzionaria e dalla parte dei lavoratori, lavoratrici, precar*, studenti e studentesse senza futuro e disoccupat*…

Quello che sembra mancare ancora una volta in questi movimenti ? la messa in discussione di determinati rapporti della societ? ?borghese: prima di tutto il rapporto di sfruttamento salariato che oggi si mostra in Europa nelle sue moderne facce di “precariato”?, “lavoratore a progetto”?, “atipico”?, “a chiamata”?.

 

Riportare all’ordine del giorno la “questione delle questioni”

Fin quando non ci saranno componenti, seppure minoritarie, in grado di porre la “questione delle questioni”? ossia il cambio del modo di produzione per l’umanit? ?intera, sia i movimenti che continueranno a nascere, sia i militanti sinceramente rivoluzionari, persisteranno nel seguire i carrozzoni politici del momento o a inseguire chimere irraggiungibili.

In effetti, al contrario di ci? che sperano o credono i soli “capi”? o “capetti” di questi movimenti, questa ? l’epoca in cui non esistono margini per l’applicazione di politiche riformiste perch? la borghesia non pu? pi? elargire neanche le briciole. Purtroppo, in contrasto con ogni teoria propagandata, sono ancora questi segmenti minoritari della sinistra, non pi? n? comunista n? rivoluzionaria, a dettare programmi e giornate di lotta.

Fino a quando dunque, in quanto militanti a file sparse, ci faremo passare sopra non solo dallo sfruttamento ma anche da questi “piccoli padri”? della sinistra?

Preso atto di tutto questo, nonostante la mancanza di una diffusa coscienza nel proletariato moderno sulla propria reale condizione – una coscienza tale da non farsi risucchiare sotto l’ala protettrice della sempre attenta borghesia e delle forze politiche che ne rappresentano gli interessi (partiti socialdemocratici e il Pd o Sel in Italia) – tuttavia questi movimenti di massa mettono in luce la nascita di un sentimento di combattivit? ?crescente.

La strada della ricerca dei comuni interessi di classe, cos? vicini alle condizioni di lavoratori disoccupati precari studenti, ? perci? da intraprendere e portare avanti dentro queste mobilitazioni soprattutto quando esse nascono in maniera spontanea e non artificiosa.

D’altronde ? normale che solo in maniera spontanea e su basi ideologiche in un primo momento riformiste possano, in assenza di una presenza rivoluzionaria incisiva e organizzata su territori cos? estesi, svilupparsi movimenti di protesta generalizzati.

Un altro elemento che va aggiunto, quale considerazione importante, ? come all’interno delle proteste sia addirittura maggioritaria la presenza di persone appartenenti fino a poco tempo fa ai ceti medi. Queste fasce sociali, perennemente oscillanti fra il benessere e la proletarizzazione, conservano ancora un’ideologia borghese per cui rigettano come pericolosa ogni prospettiva di reale cambiamento nella societ? , credendo possibile riformare le dinamiche economiche che ci hanno condotto fino a questa “miseria in via di espansione”?.

D’altra parte con il dilagare della crisi e i debiti accumulati, anche questi soggetti cominciano a rendersi conto della loro condizioni di proletari e a intravedere non pi? un futuro roseo fatto di consumismo e sicurezze ma al contrario un mare di debiti ed enormi difficolt? ?a trovare o solo a mantenere un salario.

Tutto ci? non disattende ma, al contrario, potenzialmente aumenta le possibilit? ?che le lotte assumano da subito un significato politico. E’ il caso in parte del movimento degli?Indignados in Spagna ma anche degli ultimi movimenti di protesta studenteschi per i quali si ? passati da rivendicazioni d’emergenza, e legate a provvedimenti legislativi, fino a discutere del lavoro nella sua forma “moderna”? di sfruttamento, ossia il precariato.

Per evitare che le future lotte, effetto di cambiamenti sociali intercorsi quali la proletarizzazione dei ceti medi e l’intensificazione dello sfruttamento (flessibilit? ?del rapporto lavorativo), sfocino in proteste senza alcuna progettualit? ?o che, ancora peggio, vengano incanalate in proposte riformiste o conservatrici, ? quanto mai necessario arrivare con una proposta politica forte e generalizzata fra le presenze rivoluzionarie.

Una proposta di rivoluzione che parta dall’assunto di chiudere definitivamente con l’esperienza del “socialismo reale”? e che sia capace di analizzare il perch? della degenerazione della Rivoluzione russa nella dittatura del partito e nella forma economica del “capitalismo di stato”?.

Una forza capace di rinunciare esplicitamente a ogni forma di terrorismo politico e che sia in grado, tramite un lavoro laborioso di sistematizzazione teorica e politica dei dati inerenti questa fase del capitalismo, di scovare le nuove forme di lotta adeguate a un proletariato atomizzato e senza coscienza della sua condizione.

 

Nel resto del mondo

Pensare a una forza e un’organizzazione rivoluzionaria significa per? pretendere che essa non si posizioni in un unico paese o che si basi su dei limiti territoriali. Questo costituirebbe, oltrech? un problema per la riuscita di ogni vera rivoluzione comunista, anche una contraddizione rispetto a qualsiasi pratica internazionalista e comunista a reale difesa del proletariato ormai mondializzato.

Proprio la condizione del proletario, ossia l’uomo o la donna costretti a vendere la propria forza-lavoro fisica o intellettiva al fine di ricevere un salario di cui vivere, ? quanto di pi? lontano da concetti quali patria, nazione, confini territoriali.

Proprio in questi ultimi decenni si ? compiuto definitivamente il progetto della borghesia di estendere il mercato a tutto il mondo e di esportare la produzione in paesi che, fino a solo cinquant’anni fa, potevano definirisi ad economia pre-capitalista. Ci? non ha fatto altro che diffondere, come mai prima nella storia, la figura del salariato su scala mondiale.

Questa pre-condizione necessaria, ovvero essere una classe presente in tutto il mondo, ora si presenta come realt? ?concreta. Quello che manca purtroppo ? una presa di coscienza diffusa fra i proletari di “essere un’unica classe”? e di avere una sola possibilit? ?per affrancarsi dallo sfruttamento, ossia chiudere per sempre con il “regno delle necessit?”? e giungere a una societ? ?senza pi? classi.

Se da un fronte – quello europeo e dei paesi capitalisticamente sviluppati – i ceti medi si proletarizzano e parte di essi ? in cerca di un movimento, di un partito che possa rappresentarli, nei paesi in via di sviluppo – Brasile, India, Cina – la classe media stenta a crescere e dunque a rappresentare una via d’uscita (nuovi mercati) per la sovrapproduzione mondiale di merci.

La condizione dei salariati di questi paesi ? quella di lavoratori e le lavoratrici che guadagnano 50 cents all’ora ed essi scioperano “contro turni i 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile”?.

Iniziare con l’internazionalizzare il dibattito all’interno delle assemblee, oltre a connettersi fra sparute presenze rivoluzionarie di tutto il mondo, sono solo due delle possibilit? ?per favorire la presa di coscienza da parte delle nuove generazioni di proletari e proletarie rispetto al futuro di povert? ?che ci attende ma anche e soprattutto dell’ineluttabilit? ?di questo destino se permane il modo di produzione capitalistico.

Infatti, il capitalismo, essendo organizzato al fine esclusivo del profitto, non pu? adottare che politiche alla sua massimizzazione e, dunque, all’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro. Non certo alla salvaguardia degli interessi di chi, per vivere, deve venderla e vendersi.

spohn

 

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