L’Italia che lavora e il modello Cinese (parte prima)

Dopo le varie “mazzate” su Riforma del sistema pensionistico e manovra finanziaria, adesso il Governo Monti, alias il Comitato d’affari della borghesia internazionale, decide di occuparsi di lavoro. Il Capitalismo, non solo nostrano, ci propone ancora una volta «quell’alto grado di civiltà in cui Wealth of the nation, vale a dire formazione del Capitale e sfruttamento spudorato e immiserimento della massa del popolo, vengono considerati come ‘ultima Thule’ di ogni acume politico[1]».

La «crescita», proclamata dal professor Monti in quanto priorità assoluta, equivale esattamente alla creazione di nuovo plusvalore. Per fare ciò è indispensabile massimizzare i profitti e ridurre al minimo i costi, fra cui ovviamente i costi della forza-lavoro. A questo punto il superamento del mercato del lavoro duale per cui «alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutela[2]» diviene d’un tratto il Cavallo di Troia per distruggere gli ultimi diritti in materia di lavoro. L’abbassamento del livello della condizione lavorativa è ancora una volta l’unico volano per la crescita dell’economia.

Eppure dietro l’«equità» del signor Monti si nascondono i progetti di «disciplina veramente universale[3]» del Governo della bancocrazia: salari bassi, contratti a tempo determinato e soprattutto libertà da parte delle aziende di licenziare o, come direbbe Marx, «libertà di mantenere in schiavitù gli operai[4]».

Infatti la chiacchierata abolizione dell’articolo 18 nasconde dietro di sè ben altre prospettive. Più che attaccare quella norma per ciò che tuttora rappresenta e ostacola, l’obbiettivo non dichiarato è rendere possibile il cosiddetto «licenziamento per crisi[5]». Proprio ciò che è invocato a gran voce nelle proposte di legge ideate dal senatore PD Pietro Ichino e sottoscritte da una schiera di parlamentari bipartisan nel 2009. Secondo questa proposta di legge il «licenziamento per motivo economico, tecnico, organizzativo» deve avere un preavviso massimo di dodici mesi e non è soggetto a sindacato giudiziale.

In poche parole i privati, italiani o stranieri, avranno totale libertà di acquistare  forza-lavoro e recedere successivamente ogni forma di contratto sottoscritto senza alcun preavviso. In cambio i privati dovranno garantire un conguaglio al lavoratore e accompagnarlo verso una nuova occupazione (contratto di ricollocazione).

L’imbarbarimento dello condizioni dello sfruttamento capitalistico è la scelta obbligata della borghesia italiana e mondiale.  Essa va di pari passo con il tentativo, in parte riuscito, di delegittimare la contrattazione collettiva a favore della contrattazione aziendale e s’inserisce in quella lotta di interessi contrapposti chiamata Lotta di Classe.

La formula dell’equità è quindi un futuro di equa povertà per i venditori di lavoro, mentre chi possiede un Capitale da investire potrà benissimo continuare a scegliere se utilizzarlo nella sfera della produzione o preferire le speculazioni finanziarie internazionali.

Il modello Cina, con i bassissimi costi della manodopera, sta facendo sentire il suo peso sul livello internazionale per cui non basta più esportare le industrie in Oriente, bensì è fondamentale abbassare i costi della produzione anche nei paesi capitalisticamente avanzati. Persino il caso della Grecia e il collasso del suo Stato potrebbe rappresentare l’avvio di un laboratorio europeo per la manodopera a basso costo, la cosiddetta cinesizzazione del mercato del lavoro. Ovviamente a questi brutali cambiamenti segue e seguirà la rottura di una pace sociale fino a oggi più o meno stabilita …

Tuttavia, tornando alla crisi economica che imperversa in Europa e non solo, diversi fattori ci confermano come le contraddizioni alla base siano tutte interne al ciclo di riproduzione del Capitale. Dunque non “guasti del sistema”, eccessi della Finanza internazionale ma al contrario effetti diretti della scarsa capacità dei Capitali di remunerarsi (aumentare) attraverso il mondo della produzione tout court.

D’altronde non è un mistero come in queste settimane la Banca Europea abbia prestato a un tasso irrisorio del 1% circa 500 mld di euro alle banche, nella chiara speranza che quest’ultime comprassero titoli emessi dagli stati appartenenti all’Eurozona. Le banche al contrario, al posto di investire nei settori produttivi e/o nei Titoli del debito sovrano a lunga scadenza hanno preferito tesaurizzare questi soldi ricevuti presso la stessa Bce ad un tasso dello 0,25%.  Dunque le banche hanno preferito perdere dei soldi piuttosto che immetterli nel mondo della produzione e dell’industria.

Questo è un altro chiaro segnale di come l’aspettativa ultima in investimenti legati alla produzione di merci sia andata progressivamente scemando negli ultimi quaranta anni. Ad oggi, per i grossi investitori quali le Banche è più utile aspettare la scadenza di titoli del debito pubblico di vari paesi che, secondo una stima del FMI, corrisponderanno a circa undicimila miliardi di dollari nel 2012.

Tutto ciò a sostegno della tesi che alla base di questa crisi economica mondiale non c’è  la sregolatezza finanziaria bensì la caduta del saggio di profitto nel mondo della produzione e del plusvalore. Da qui il ricorso alla finanza con le speculazioni e,  successivamente, l’attacco manovrato ai debiti pubblici degli Stati sovrani.

Nella fase di decadenza di un Capitalismo mai come oggi mondializzato e rapace, proprio il debito pubblico ci appare (provocatoriamente) come «l’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entri realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni»[6].

Spohn

Continua …

[1] K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, Il processo di accumulazione del Capitale, Espropriazione della popolazione rurale e suo allontanamento dalle terre.

[2] Discorso di Monti alla Camera del 17/11/11.

[3] Ibi.

[4] K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, Il processo di accumulazione del Capitale, Legge per la riduzione dei salari.

[5] Disegno di legge 1873, Art. 2119.

[6] K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, Il processo di accumulazione del Capitale, Genesi del capitalista industriale.

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